Traduzione di: Silvia Scuotto
Originally appeared on: Jama Oncology by
http://oncology.jamanetwork.com/article.aspx?articleid=2108855&resultClick=3
Utilizzare la metafora della battaglia implica che se un paziente combatte con abbastanza forza, intelligenza, e/o costanza, sarà in grado di vincere la guerra. Purtroppo, e con rare eccezioni, i pazienti con un tumore metastatico non possono sconfiggere il cancro (vincere la “guerra”), non importa quanto duramente combattano. Sono troppo pochi i trattamenti curativi e gli interventi efficaci che abbiamo. Siamo in grado di festeggiare occasionali sopravvissuti a lungo termine, ma per la maggior parte, non sappiamo perché una persona è viva 15 anni dopo la diagnosi di cancro avanzato, mentre un'altra muore 9 mesi dopo la diagnosi. I pazienti con malattia “curabile” sono curati perché il trattamento elimina ogni singola cellula, non perché in qualche modo il paziente abbia o meno combattuto valorosamente.
Inoltre, i pazienti, naturalmente, spesso muoiono di cancro, ma non sono perdenti in una battaglia. Una volta che qualcuno riceve una diagnosi di cancro, in particolare nel caso di malattia in stadio avanzato, inizia un viaggio; a volte il viaggio richiede pazienza, tolleranza, e coraggio, ma a un certo punto, la maggior parte dei pazienti con malattia avanzata termina quel viaggio con la perdita della vita. Sebbene questo viaggio difficile e tumultuoso possa essere giunto alla fine, morire non deve essere visto come una sconfitta in una sorta di schermaglia.
Molti degli stessi pazienti adottano la metafora della battaglia quando ricevono la diagnosi. Se qualcuno ha bisogno di assumere un atteggiamento bellicoso per affrontare le sfide del cancro, così sia; serve tutto ad aiutare un paziente (e la sua famiglia) a far fronte a questo viaggio. Noi tutti abbiamo avuto l'esperienza di pazienti che dichiarano (parafrasato) “Voglio un trattamento curativo, non un trattamento palliativo, perché ho intenzione di sconfiggere questa cosa.” La litania di risonanze, appuntamenti, esami, prelievi di sangue, pillole, infusi, interventi chirurgici e trattamenti radioterapici possono far sentire il paziente come se fosse stato in una battaglia. Tuttavia, pensandoci da una prospettiva differente, l'uso della metafora della battaglia implica un livello di controllo che i pazienti semplicemente non hanno.
Quando è stata l'ultima volta che avete detto che qualcuno ha perso la sua battaglia con una malattia cardiaca? O con un incidente d'auto? O con un trauma cerebrale? I pazienti in quelle situazioni non hanno perso una battaglia, sono morti. Il paziente che muore di cancro, proprio come qualcuno muore di insufficienza cardiaca, è semplicemente morto.
Inoltre, quando si parla di “battaglia”, minimizziamo i problemi reali affrontati dai pazienti ogni giorno. I pazienti affrontano e talvolta superano nausea, dolore, stanchezza e perdita di peso. Soffrono dell'isolamento che deriva dalla diagnosi. I pazienti con una malattia potenzialmente curabile, vivono con la paura della ricorrenza e dell'impatto degli effetti collaterali cronici. A meno che non siate stati nei loro panni, spesso è difficile immaginare le sfide affrontate ogni giorno dai nostri pazienti, e noi stessi spesso non diamo abbastanza merito ai pazienti per la persistenza e resistenza dimostrati nel loro viaggio. Riconosciamogli tutte le sfide che hanno superato nel loro viaggio. Non dichiariamoli perdenti alla fine di questo viaggio. Quando una persona corre una maratona, riconosciamo i meriti del suo allenamento, impegno e aspirazione. Non proclamiamo mai chi sia arrivato al traguardo dal secondo posto all'ultimo in una maratona è un perdente.
Allo stesso modo, il bisogno continuo di vincere la battaglia si estende agli oncologi, che si occupano attivamente di pazienti per troppo tempo. Il fatto è che l'8% dei pazienti riceve la chemioterapia 2 settimane prima di morire di cancro, e il 62% 2 mesi prima. La tardiva chemioterapia è associata a una diminuzione dell'uso degli istituti per malati terminali, un maggiore utilizzo di interventi d'emergenza (compresi quelli di rianimazione), e un aumento del rischio di morire in un reparto di terapia intensiva piuttosto che a casa. Tutto ciò riflette chiaramente il bisogno della nostra società di combattere fino alla fine. Ma diamo uno sguardo più da vicino a questa mentalità. Per la maggior parte, le nostre terapie sono tossiche: provocano depressione del sistema immunitario, affaticamento, sfoghi cutanei, nausea, vomito, neuropatia, e così via. Inoltre, nel panorama assicurativo di oggi, molte delle nostre terapie possono portare a una tossicità finanziaria. I pazienti sono disposti ad affrontare questi effetti collaterali, come un compromesso per la “speranza”, ma noi siamo onesti con loro circa il vero beneficio potenziale del trattamento? Per molte terapie, ci sono poche prove che la vita sia sostanzialmente prolungata (per amor di discussione, definiamo “sostanzialmente” 2 mesi o più). Abbiamo visto pazienti determinati a vincere la loro battaglia. Mentre tornano di trattamento in trattamento, non trascorrono tempo con i loro cari; piuttosto, stanno inseguendo la “vittoria” illusoria, un percorso che non riguarda soltanto loro, ma anche le famiglie e gli operatori sanitari, così come le finanze familiari.
Ci sono pazienti che affrontano la loro mortalità a occhi aperti e, sì, con coraggio. Fanno delle scelte e possono scegliere di morire alle loro condizioni: si può scegliere di morire senza un farmaco che induce eruzioni cutanee, diarrea, o stanchezza. Possono anche scegliere di trascorrere il tempo rimanente a fare quel che vogliono, senza un accesso venoso o un'area di infusione. Possono scegliere di non essere costretti alle infusioni settimanali e ai ripetuti prelievi di sangue e risonanze. In effetti, una giovane donna coraggiosa con un tumore al cervello, di recente ha deciso di completare la sua lista di cose da fare nella vita fintanto che si sentiva bene; poi ha scelto di morire alle sue condizioni secondo la Death With Dignity Act dell'Oregon [N.d.T. 1], avendo stabilito la sua residenza in quello stato dopo aver appreso del tumore al cervello e anticipando la sofferenza delle fasi finali di questa malattia. Lei ha perso la sua battaglia? O ha scelto di controllare come ha trascorso i suoi ultimi giorni? Noi oseremmo dire che ha formulato la scelta, consapevole e ragionata, di dire “basta”, basta al dolore, basta al trattamento più marginale, basta agli effetti collaterali indotti dai trattamenti: basta!
Naturalmente, la scelta di terminare la propria terapia e perfino la propria vita (attraverso la Death With Dignity Act) appartiene al paziente. La decisione dei pazienti dipende dalla propria salute, dalla propria famiglia, dalla propria fede e, da un punto di vista pragmatico, dalla propria ubicazione. Crediamo fermamente che gli operatori sanitari debbano ai loro pazienti i discorsi difficili e onesti che sopraggiungono quando i pazienti sono alle prese con la loro mortalità. Riteniamo inoltre che le decisioni dei pazienti debbano essere onorate e sostenute dal loro gruppo di assistenza sanitaria.
Note del Traduttore
N.d.T. 1: Legge del 1994 che legalizza il suicidio assistito per i malati terminali nello stato dell'Oregon
N.d.T. 2: La ESPN (Entertainment & Sports Programming Network) è una emittente televisiva statunitense che trasmette programmi dedicati unicamente allo sport 24 ore su 24
N.d.T. 3: Un ESPY Award (Excellence in Sports Performance Yearly Award) è un riconoscimento
presentato dalla ESPN per premiare un successo atletico, individuale e di gruppo, e altre prestazioni relazionate allo sport nel corso dell'anno precedente
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I pazienti con il cancro perdono molte cose importanti. Appena sentono le parole “lei ha il cancro”, perdono il controllo delle loro vite, poiché gli appuntamenti medici iniziano immediatamente a influenzare i loro programmi quotidiani. Possono perdere la capacità di partecipare ad attività che portano loro gioia, a seguito di effetti collaterali causati dai continui trattamenti, come neuropatia, problemi intestinali o linfedema. In troppi perdono la vita. Sentiamo anche comunemente la dichiarazione che un paziente ha perso “la sua battaglia” contro il cancro. Come medici che trattano pazienti oncologici, e come difensori, crediamo che questa citazione sia inadeguata, anzi addirittura umiliante per il paziente, la sua famiglia, e gli amici.
Da quando il presidente Nixon dichiarò una “guerra al cancro” nel 1971, molti hanno usato una qualche variante del termine “combattere il cancro” per descrivere tutti i tipi di trattamento oncologico, dal sottoporsi a terapie locoregionali, come un intervento chirurgico e/o radioterapia, alla ricerca sistemica di chemioterapia o terapie biologiche, e anche perseguendo regimi alternativi. Ciò è particolarmente comune nelle campagne pubblicitarie per gli ospedali o per i programmi di oncologia. Quasi ogni giorno entriamo in contatto con notizie sui giornali o in onda, sulla storia di un paziente che ha perso la sua battaglia contro il cancro. Ci sono stati diversi editoriali e dichiarazioni notevoli e appassionate su questo tema, e una ricerca google su “perso la battaglia contro il cancro” può certamente fornire alcune buone letture. Tuttavia, vogliamo rivedere questo argomento perché vi è la necessità di spiegare che ricevere una diagnosi di cancro non dovrebbe negare a nessuno la propria dignità; nessuno con il cancro dovrebbe essere considerato un “perdente” in alcun modo durante il corso della malattia neoplasica, inclusi quei pazienti che muoiono a causa del loro tumore, degli effetti della terapia, o di altre scelte legali, quali il diritto all'eutanasia.
Da quando il presidente Nixon dichiarò una “guerra al cancro” nel 1971, molti hanno usato una qualche variante del termine “combattere il cancro” per descrivere tutti i tipi di trattamento oncologico, dal sottoporsi a terapie locoregionali, come un intervento chirurgico e/o radioterapia, alla ricerca sistemica di chemioterapia o terapie biologiche, e anche perseguendo regimi alternativi. Ciò è particolarmente comune nelle campagne pubblicitarie per gli ospedali o per i programmi di oncologia. Quasi ogni giorno entriamo in contatto con notizie sui giornali o in onda, sulla storia di un paziente che ha perso la sua battaglia contro il cancro. Ci sono stati diversi editoriali e dichiarazioni notevoli e appassionate su questo tema, e una ricerca google su “perso la battaglia contro il cancro” può certamente fornire alcune buone letture. Tuttavia, vogliamo rivedere questo argomento perché vi è la necessità di spiegare che ricevere una diagnosi di cancro non dovrebbe negare a nessuno la propria dignità; nessuno con il cancro dovrebbe essere considerato un “perdente” in alcun modo durante il corso della malattia neoplasica, inclusi quei pazienti che muoiono a causa del loro tumore, degli effetti della terapia, o di altre scelte legali, quali il diritto all'eutanasia.
Utilizzare la metafora della battaglia implica che se un paziente combatte con abbastanza forza, intelligenza, e/o costanza, sarà in grado di vincere la guerra. Purtroppo, e con rare eccezioni, i pazienti con un tumore metastatico non possono sconfiggere il cancro (vincere la “guerra”), non importa quanto duramente combattano. Sono troppo pochi i trattamenti curativi e gli interventi efficaci che abbiamo. Siamo in grado di festeggiare occasionali sopravvissuti a lungo termine, ma per la maggior parte, non sappiamo perché una persona è viva 15 anni dopo la diagnosi di cancro avanzato, mentre un'altra muore 9 mesi dopo la diagnosi. I pazienti con malattia “curabile” sono curati perché il trattamento elimina ogni singola cellula, non perché in qualche modo il paziente abbia o meno combattuto valorosamente.
Inoltre, i pazienti, naturalmente, spesso muoiono di cancro, ma non sono perdenti in una battaglia. Una volta che qualcuno riceve una diagnosi di cancro, in particolare nel caso di malattia in stadio avanzato, inizia un viaggio; a volte il viaggio richiede pazienza, tolleranza, e coraggio, ma a un certo punto, la maggior parte dei pazienti con malattia avanzata termina quel viaggio con la perdita della vita. Sebbene questo viaggio difficile e tumultuoso possa essere giunto alla fine, morire non deve essere visto come una sconfitta in una sorta di schermaglia.
Molti degli stessi pazienti adottano la metafora della battaglia quando ricevono la diagnosi. Se qualcuno ha bisogno di assumere un atteggiamento bellicoso per affrontare le sfide del cancro, così sia; serve tutto ad aiutare un paziente (e la sua famiglia) a far fronte a questo viaggio. Noi tutti abbiamo avuto l'esperienza di pazienti che dichiarano (parafrasato) “Voglio un trattamento curativo, non un trattamento palliativo, perché ho intenzione di sconfiggere questa cosa.” La litania di risonanze, appuntamenti, esami, prelievi di sangue, pillole, infusi, interventi chirurgici e trattamenti radioterapici possono far sentire il paziente come se fosse stato in una battaglia. Tuttavia, pensandoci da una prospettiva differente, l'uso della metafora della battaglia implica un livello di controllo che i pazienti semplicemente non hanno.
Quando è stata l'ultima volta che avete detto che qualcuno ha perso la sua battaglia con una malattia cardiaca? O con un incidente d'auto? O con un trauma cerebrale? I pazienti in quelle situazioni non hanno perso una battaglia, sono morti. Il paziente che muore di cancro, proprio come qualcuno muore di insufficienza cardiaca, è semplicemente morto.
Inoltre, quando si parla di “battaglia”, minimizziamo i problemi reali affrontati dai pazienti ogni giorno. I pazienti affrontano e talvolta superano nausea, dolore, stanchezza e perdita di peso. Soffrono dell'isolamento che deriva dalla diagnosi. I pazienti con una malattia potenzialmente curabile, vivono con la paura della ricorrenza e dell'impatto degli effetti collaterali cronici. A meno che non siate stati nei loro panni, spesso è difficile immaginare le sfide affrontate ogni giorno dai nostri pazienti, e noi stessi spesso non diamo abbastanza merito ai pazienti per la persistenza e resistenza dimostrati nel loro viaggio. Riconosciamogli tutte le sfide che hanno superato nel loro viaggio. Non dichiariamoli perdenti alla fine di questo viaggio. Quando una persona corre una maratona, riconosciamo i meriti del suo allenamento, impegno e aspirazione. Non proclamiamo mai chi sia arrivato al traguardo dal secondo posto all'ultimo in una maratona è un perdente.
Allo stesso modo, il bisogno continuo di vincere la battaglia si estende agli oncologi, che si occupano attivamente di pazienti per troppo tempo. Il fatto è che l'8% dei pazienti riceve la chemioterapia 2 settimane prima di morire di cancro, e il 62% 2 mesi prima. La tardiva chemioterapia è associata a una diminuzione dell'uso degli istituti per malati terminali, un maggiore utilizzo di interventi d'emergenza (compresi quelli di rianimazione), e un aumento del rischio di morire in un reparto di terapia intensiva piuttosto che a casa. Tutto ciò riflette chiaramente il bisogno della nostra società di combattere fino alla fine. Ma diamo uno sguardo più da vicino a questa mentalità. Per la maggior parte, le nostre terapie sono tossiche: provocano depressione del sistema immunitario, affaticamento, sfoghi cutanei, nausea, vomito, neuropatia, e così via. Inoltre, nel panorama assicurativo di oggi, molte delle nostre terapie possono portare a una tossicità finanziaria. I pazienti sono disposti ad affrontare questi effetti collaterali, come un compromesso per la “speranza”, ma noi siamo onesti con loro circa il vero beneficio potenziale del trattamento? Per molte terapie, ci sono poche prove che la vita sia sostanzialmente prolungata (per amor di discussione, definiamo “sostanzialmente” 2 mesi o più). Abbiamo visto pazienti determinati a vincere la loro battaglia. Mentre tornano di trattamento in trattamento, non trascorrono tempo con i loro cari; piuttosto, stanno inseguendo la “vittoria” illusoria, un percorso che non riguarda soltanto loro, ma anche le famiglie e gli operatori sanitari, così come le finanze familiari.
Ci sono pazienti che affrontano la loro mortalità a occhi aperti e, sì, con coraggio. Fanno delle scelte e possono scegliere di morire alle loro condizioni: si può scegliere di morire senza un farmaco che induce eruzioni cutanee, diarrea, o stanchezza. Possono anche scegliere di trascorrere il tempo rimanente a fare quel che vogliono, senza un accesso venoso o un'area di infusione. Possono scegliere di non essere costretti alle infusioni settimanali e ai ripetuti prelievi di sangue e risonanze. In effetti, una giovane donna coraggiosa con un tumore al cervello, di recente ha deciso di completare la sua lista di cose da fare nella vita fintanto che si sentiva bene; poi ha scelto di morire alle sue condizioni secondo la Death With Dignity Act dell'Oregon [N.d.T. 1], avendo stabilito la sua residenza in quello stato dopo aver appreso del tumore al cervello e anticipando la sofferenza delle fasi finali di questa malattia. Lei ha perso la sua battaglia? O ha scelto di controllare come ha trascorso i suoi ultimi giorni? Noi oseremmo dire che ha formulato la scelta, consapevole e ragionata, di dire “basta”, basta al dolore, basta al trattamento più marginale, basta agli effetti collaterali indotti dai trattamenti: basta!
Naturalmente, la scelta di terminare la propria terapia e perfino la propria vita (attraverso la Death With Dignity Act) appartiene al paziente. La decisione dei pazienti dipende dalla propria salute, dalla propria famiglia, dalla propria fede e, da un punto di vista pragmatico, dalla propria ubicazione. Crediamo fermamente che gli operatori sanitari debbano ai loro pazienti i discorsi difficili e onesti che sopraggiungono quando i pazienti sono alle prese con la loro mortalità. Riteniamo inoltre che le decisioni dei pazienti debbano essere onorate e sostenute dal loro gruppo di assistenza sanitaria.
Rispettiamo i pazienti che già soffrono delle conseguenze del cancro e della terapia correlata al cancro. Recentemente, il conduttore della ESPN [N.d.T. 2] Stuart Scott è morto di cancro all'età di 49 anni: 7 anni dopo la diagnosi iniziale e una terapia aggressiva. Ai premi ESPY [N.d.T. 3] nel mese di luglio 2014, nel mezzo del percorso con il suo cancro e la terapia, il signor Scott ha detto al pubblico: “Quando si muore, non significa che si perde contro il cancro. Il cancro si sconfigge per come si vive, perché si vive, e nel modo in cui si vive”. Moriremo tutti un giorno; forse il vincitore qui è la persona che lo fa secondo i propri termini; la persona che muore in pace e non in guerra. Concentriamoci sulla vita che le persone godevano prima che gli si dicesse “lei ha il cancro” e ricordiamoli come vincitori nella vita, non perdenti nella morte. Smettiamo di lasciare che il cancro sembri il vincitore.
Note del Traduttore
N.d.T. 1: Legge del 1994 che legalizza il suicidio assistito per i malati terminali nello stato dell'Oregon
N.d.T. 2: La ESPN (Entertainment & Sports Programming Network) è una emittente televisiva statunitense che trasmette programmi dedicati unicamente allo sport 24 ore su 24
N.d.T. 3: Un ESPY Award (Excellence in Sports Performance Yearly Award) è un riconoscimento
presentato dalla ESPN per premiare un successo atletico, individuale e di gruppo, e altre prestazioni relazionate allo sport nel corso dell'anno precedente