giovedì 30 luglio 2015

Alanis Morissette: Il mio rapporto con il cibo e il grasso

Traduzione di: Silvia Scuotto
Originally appeared on: iVillage.ca, by Alanis Morissette




Poche cose mi irritano quanto chi commenta in modo dispregiativo il peso di qualcun altro, quando non hanno affrontato in prima persona un disturbo alimentare.

Ridurre bruscamente e sbrigativamente l’arduo percorso di qualcuno a una battuta sulla necessità che mangi meno hamburger – o anche al contrario, che “dovrebbe mangiare un panino” – sottovaluta totalmente le complessità più profonde e sottili a portata di mano (o di cuore, o di bocca, in questo caso). Per lo meno, ignora l’epidemia di una società ossessionata da un’estetica della magrezza dove, una volta raggiunta, deride quello stesso obiettivo come malato e pericoloso. Cosa può fare una ragazza perfezionista e motivata?

Se mai ci fosse una lama a doppio taglio, sarebbe questa. Noi, colpiti della varietà di standard di Hollywood (leggi: purtroppo, il mondo) lavoriamo con le unghie, con i denti, e i tapis roulant per aderire a questo numero (nastro di misurazione, scala e altro) che aleggia direttamente sotto qualunque cosa consenta di cedere a un cupcake qua e là, e quando lo facciamo, sollecitiamo confusamente sguardi interessati di ammonimento o complimenti su "quanto stiamo bene". Mi ricordo quando ero all’apice della mia magrezza, sentendomi come se riuscissi a malapena a trascinare il mio corpo letargico in giro, solo per essere sommersa dal maggior numero di complimenti che abbia mai ricevuto.

Non credo sia una coincidenza che l’America venga derisa per i suoi livelli di obesità, ma sia anche un paese ossessionato con la magrezza. Questo approccio tutto-o-niente è endemico nella nostra società occidentale. Allo stesso modo, e forse più forte, quando qualcuno già dentro la lotta con il cibo, scala il tappeto rosso di Hollywood, i commenti si buttano su quanto sia indulgente e indisciplinato.

C’è una cosa che so nel profondo, ed è che non incontrerete mai una persona più testarda, disciplinata, motivata e colta sull’alimentazione di qualcuno che è alle prese con un disturbo alimentare! L’idea che le persone con dipendenze alimentari siano indisciplinate è un’altra madornale percezione sbagliata tra le tante. Raramente incontrerete qualcuno che ha una capacità di moderazione superiore rispetto a chi sta lottando con il dolore o la paura che colpisce in modo sintomatico il peso.

Per discutere in modo derisorio del grasso senza discutere dei nostri sentimenti e traumi e del nostro senso di disconnessione dalla nostra anima, noi stessi, e l’un l’altro, ci si concentra sull’effetto e non sulla causa. Questa svista perpetua l’auto-abuso che alimenta questo e molti altri disturbi e dipendenze.

Il rapporto con il cibo non può essere affrontato singolarmente attraverso la rigida struttura di un piano-di-dieta-e-cibo, o uno schiaffo sulla mano. Il nostro indirizzamento nei confronti del cibo oltre alle ragioni di sostentamento fa parte degli aspetti multistrato dell’essere umano. Alcuni di essi sono:

I nostri mondi emozionali: Ci sono spesso traumi e abusi/abbandoni che implorano di essere guariti. Il grasso può essere un modo per proteggere noi stessi e sopravvivere, un modo per controllare qualcosa in un mondo dove tutto sembra fuori controllo, e un modo per allontanare la paura profonda di sentire i nostri sentimenti. Spesso trovo che ansia, paura, noia, delusione, solitudine, eccitazione e il dolore siano i principali sentimenti che il cibo può tentare di sopprimere.

I nostri mondi sociali: Viviamo in una società che scoraggia in particolare il sentire questi sentimenti. Quindi, non ci resta che trovare dei modi per contenere i nostri sentimenti nella migliore delle ipotesi, cancellarli nel peggiore dei casi. Diventiamo creativi su come schiacciare questi sentimenti, e il cibo è un modo come un altro per farlo. Ci sono persone che dicono che il condizionamento e lo standard sociale sia più difficile per le donne, ma così tanti uomini vivono sfide alimentari che sono riluttante a dire che si tratta solo condizione femminile. E poi ci sono i nostri confronti critici a standard che implicano che se siamo lontani dal modello figura-a-scopa-con-addominali dei nostri tempi, siamograssi maiali.

E poi c’è la componente fisiologica: Picchi glicemici, depressione, ormoni, fame e personale-ritmo-dell’appetito sfiduciano (è interessante, perché insegnato a noi da un’età molto precoce involontariamente da genitori dalle buone intenzioni con la mentalità finisci-quello-che-hai-nel-piatto). Ci sono considerazioni tiroidee, predisposizioni genetiche, malattie, infortuni e la dipendenza fisica agli additivi nella dieta americana standard. Il cibo può anche servire come un conforto che non ci viene offerto attraverso il tatto.

Così spesso, piuttosto che vedere l'aumento di peso di qualcuno come sintomo di qualcosa, sono etichettati automaticamente come "grasso" o "disgustoso". Non solo questo è dolorosamente riduzionista, manca tutto quello che potrebbe essere l'antidoto e il balsamo di guarigione a questa epidemia, e isola maggiormente coloro che sono coinvolti in un mondo molto solitario di incomprensione e ostracismo.

Il "fatism" [N.d.T.1] è un 'ismo' come qualsiasi altro, ma la nostra cultura chiude un occhio verso quella particolare versione di separatismo. Forse è la paura delle nostre stesse fragilità e umanità che ci fa desiderare di abbassare lo sguardo dal grasso che vediamo. Se ce ne si allontana, non dobbiamo guardare a queste complessità dentro di noi. Forse è più facile etichettare una persona grassa con qualità che non ci piacciono di noi stessi piuttosto che cercare di saperne di più su ciò che sono le loro vulnerabilità e cosa li rende così.

Credo che un antidoto a questo e a molti altri dolori del mondo potrebbe essere trovato in due cose: la coltivazione del nostro impulso naturale di essere curiosi, a guardare più in profondità, direttamente nelle sottigliezze di quello che potrebbe star succedendo (in questo caso, con il nostro rapporto con il cibo, il grasso e l'esercizio fisico) e favorire la mossa coraggiosa e audace di trasformare i pregiudizi verso ciò che ci fa orrore, come un modo per ridurre la sua presa su di noi.

Penso che l'effetto di applicare queste due qualità rivelerebbe ciò che io credo veramente che siamo profondamente come popolo americano: gente compassionevole, coraggiosa e generosa.

Ecco, il mio difficile rapporto con il cibo e il grasso è sempre stato un invito discreto a una più profonda gentilezza nei confronti di me stessa (che ho così spesso ignorato). Essere gentile verso la mia fragilità di fronte ad un messaggio monolitico di perfezionismo e di intolleranza non è stato un percorso facile - né, mi vergogno a dire, coerente. Scriverne aiuta.

Il grasso, a differenza di altri disturbi e dipendenze più segreti, si esprime ed è esposto all'esterno perché tutti vedano. Essendo così, faremmo bene a vedere il "peso indesiderato" come quello-che-ancora-va-indagato, piuttosto che come un francobollo delle nostre inadeguatezze confermate.


Così per l'amore di far parte di questa conversazione più ampia intorno al fatism-della-cultura-pop, la prossima volta che vediamo qualcuno affrontare una dieta yo-yo e che ha una relazione tormentata con il cibo e il proprio corpo, piuttosto che prenderlo in giro, supplico tutti noi di mettere in pausa e di offrire un po' di curiosità per ciò che si nasconde sotto e, se fosse il caso, forse anche muoversi verso di esso.

Forse questa gentilezza può lentamente fare in modo che noi del gruppo più-pesanti-di-Twiggy ci sentiamo meno soli, meno relegati, meno abbandonati. E forse allora possiamo, delicatamente, iniziare ad accettare (e addirittura amare) queste parti più profonde e più fragili di noi stessi che vengono represse ed espresse attraverso il nostro corpo e il cibo. E così facendo, ci libererà di nuovo alla totalità, espressione unica essenziale, e al peso per cui siamo nati.



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Segui Alanis Morissette su Twitter @morissette.


Note del Traduttore
N.d.T.1: "Fatism" (o "fattism") è un termine gergale per esprimere discriminazione nei confronti delle persone in sovrappeso.

lunedì 27 luglio 2015

Pregiudizio nel cervello - Come sono diventati problematici i processi evolutivi cerebrali

Traduzione di: Silvia Scuotto
Originally appeared on: Medical Daily, by Ali Venosa



Il pregiudizio è, purtroppo, una parte comune dell'interazione umana. La gente giudica e stereotipizza continuamente, anche quando non intendono farlo consapevolmente. Questi modi di pensare emergono naturalmente come parte del modo in cui funziona il cervello umano, e il modo in cui tendiamo a conformarci come specie. Un nuovo studio condotto da scienziati guidati dal Korolinska Institutet ci ha dato qualche informazione in più sul modo in cui il nostro cervello crea il pregiudizio, che in futuro potrebbe aiutarci per imparare a eliminarlo.

Perché formiamo i pregiudizi?

Il pregiudizio è generalmente definito come un giudizio o un'opinione prevenuta su qualcosa o qualcuno che non ha fondamento di fatto o ragione. Cioè, le persone che hanno pregiudizi contro qualcuno, spesso giudicano senza prestare attenzione ai fatti caso-per-caso, ma piuttosto affidandosi a un parere memorizzato riguardo il gruppo al quale quella persona appartiene. I pregiudizi spesso portano a stereotipi e discriminazione, e possono rivolgersi contro tutti i tipi di gruppi sociali, tra i quali genere, origine etnica o status sociale.

Sembra che la nostra tendenza come esseri umani a diventare prevenuti derivi dal vantaggio evolutivo della categorizzazione. Raggruppare mentalmente le cose ci aiuta a dare un senso al mondo che ci circonda, che spesso bombarda il nostro cervello con una quantità ingestibile di informazioni. Per passare al setaccio tutti questi input, il cervello cerca di creare categorie con descrizioni generali che può rapidamente riordinare in informazioni. Questa categorizzazione non si applica solo alle cose e le persone intorno a noi, ma anche a noi stessi, e abbiamo la tendenza a gravitare verso coloro che riteniamo essere come noi.

Il pregiudizio si verifica quando etichette generalizzate di "buono" o "cattivo" sono applicate a interi gruppi. Quando le persone decidono il loro "gruppo di appartenenza", o il gruppo a cui sentono di appartenere, tutti gli altri gruppi sono per default "gruppi di non appartenenza". C'è un'innata propensione nei confronti del proprio gruppo, non solo a percepirlo come migliore del "gruppo di non appartenenza", ma a essere più accogliente nei confronti dei singoli difetti di individui all'interno del "gruppo di appartenenza", cosa che diventa molto rilevante nello studio discusso più avanti.

In termini evolutivi, è stato utile per sviluppare una tendenza verso i "gruppi di non appartenenza" perché erano visti come concorrenza quando le risorse erano limitate. I "gruppi di non appartenenza" possono essere visti anche come una minaccia per la propria cultura, lingua, e usi.

Pregiudizio nel cervello

Al suo livello più elementare, il pregiudizio è un'associazione di uno stimolo a una risposta comportamentale. Sebbene a volte le nostre reazioni siano utili per la sopravvivenza (per esempio: sentiamo un orso che viene verso di noi, il cervello ci dice di essere spaventati), il cervello umano può anche far squillare falsi allarmi su stimoli che non sono realmente una minaccia. È molto più sicuro essere eccessivamente prudenti, ma il pregiudizio è un esempio lampante di come la tendenza di un essere umano di valutare erroneamente che qualcosa sia pericoloso possa causare problemi ai giorni nostri.

Diversi studi hanno cercato di esaminare i processi neurali coinvolti nel pensare con i pregiudizi. L'amigdala, una struttura del cervello fortemente associata con il condizionamento alla paura nel cervello, è stato al centro della ricerca su dove e come formiamo il pregiudizio inconscio. In uno studio del 2007, a un gruppo di maschi bianchi sono stati mostrati volti sconosciuti che variavano nel tono della pelle da molto chiaro a molto scuro. È stata osservata nei partecipanti una maggiore attività dell'amigdala durante la visualizzazione di volti neri in in opposizione al bianco, a prescindere da quanto fossero scuri i volti neri.

Questi pregiudizi inconsci non si applicano soltanto ai pregiudizi razziali, ma anche a genere, sessualità, etnia, e provenienza sociale.

Come entra in gioco il condizionamento alla paura

Un altro modo in cui può sorgere il pregiudizio è attraverso l'apprendimento condizionato. Se una persona subisce un'esperienza negativa o pericolosa con qualcuno che categorizzano come appartenente a un "gruppo di non appartenenza", è probabile che associno l'intero "gruppo di non appartenenza" con quella esperienza negativa. Perché, però, non diventiamo prevenuti nei confronti di chi è nel nostro gruppo? Sicuramente tutti noi abbiamo avuto una brutta esperienza con qualcuno nel nostro "gruppo di appartenenza" in un certo punto della vita, ma non abbiamo creato pregiudizi verso il gruppo nel suo complesso.

La ragione di ciò può essere più chiara grazie allo studio del Karolinska Institutet. I ricercatori hanno trovato differenze di attività cerebrale dopo un'esperienza avversa a seconda se l'esperienza è stata con un membro del proprio gruppo, o di qualcuno proveniente da un "gruppo di non appartenenza".

Nello studio, sono state mostrate a 20 soggetti bianchi immagini di volti sia bianchi che neri. Un volto in ciascun gruppo razziale è stato abbinato a una piccola scossa elettrica al partecipante - uno stimolo avverso. È stato mostrato loro nuovamente il giro di immagini per dimostrare che erano in realtà al sicuro, e il giorno dopo hanno partecipato a un compito interattivo sociale, progettato per misurare l'attività cerebrale e il comportamento quando entravano in contatto con le diverse immagini.

I risultati hanno mostrato che i partecipanti hanno avuto ricordi esagerati dello stimolo avverso associato al volto del "gruppo di non appartenenza". L'amigdala vi ha svolto un ruolo chiave, e ha previsto successive espressioni di comportamenti discriminatori nei confronti di nuovi membri del "gruppo di non appartenenza" durante il compito interattivo.

“Un certo numero di studi di neuroimaging hanno studiato le componenti neurali di acquisizione ed estinzione delle paure, e molti altri hanno esaminato la percezione passiva di volti di "gruppi di appartenenza" e "gruppi di non appartenenza"”, hanno scritto i ricercatori. “I nostri risultati vanno al di là di queste osservazioni, mostrando che i processi di apprendimento di base variano a seconda di chi stiamo imparando a temere o detestare, e che queste differenze possono prevedere una polarizzazione verso i "gruppi di non appartenenza" durante il successivo richiamo della memoria e il comportamento interattivo.”

Cosa possiamo fare?

L'empatia è stata citata come il fattore chiave per decostruire i pregiudizi radicati. Il metodo più efficace finora per ridurre i pregiudizi è chiamato "ipotesi di contatto". Questo suggerisce che quando le persone entrano realmente in contatto con i membri di un "gruppo di non appartenenza", hanno più probabilità di sviluppare pareri positivi su di loro. Il contatto deve essere significativo e prezioso per entrambe le parti, al fine di ridurre efficacemente il pregiudizio. Ancora più importante, essere consapevoli dei propri pregiudizi è il primo passo per ridurli.

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Fonti:
Molapour T, Golkar A, Navarrete C, Haaker J, Olsson A. Neural correlates of biased social fear learning and interaction in an intergroup context. Neuroimage. 2015.

Ronquillo J, Denson T, Lickel B, Lu Z, Nandy A, Maddox K. The effects of skin tone on race-related amygdala activity: an fMRI investigation. Social Cognitive and Affective Neuroscience. 2007.

sabato 25 luglio 2015

Oliver Sacks: La mia tavola periodica

Traduzione di: Silvia Scuotto
Originally appeared on: The New York Times, by Oliver Sacks



Aspetto con entusiasmo, quasi con cupidigia, l'arrivo settimanale di riviste come Nature e Science, e andare subito agli articoli sulle scienze fisiche - non, come forse dovrei, agli articoli sulla biologia e sulla medicina. Furono le scienze fisiche le prime a incantarmi da ragazzo.

In un numero recente di Nature, c'era un articolo entusiasmante del fisico premio Nobel Frank Wilczek su un nuovo modo di calcolare le masse leggermente diverse di neutroni e protoni. Il nuovo calcolo conferma che i neutroni sono lievemente più pesanti rispetto ai protoni - con un rapporto delle loro masse di 939,56563 a 938,27231 - una differenza banale, si potrebbe pensare, ma se fosse altrimenti l'universo come lo conosciamo non si sarebbe mai potuto sviluppare. La possibilità di poterla calcolare, ha scritto il dottor Wilczek, "ci incoraggia a prevedere un futuro in cui la fisica nucleare raggiungerà il livello di precisione e la versatilità che ha già raggiunto la fisica atomica" - una rivoluzione che, ahimè, io non vedrò mai.

Francis Crick era convinto che il "problema difficile" - comprendere come il cervello dia origine alla coscienza – sarebbe stato risolto entro il 2030. "Vedrai", diceva spesso al mio amico neuroscienziato Ralph, "e potresti anche tu, Oliver, se vivrai fino alla mia età ". Crick ha vissuto quasi fino a 90 anni, lavorando e pensando alla coscienza fino all'ultimo. Ralph è morto prematuramente, a 52 anni, e ora io ho una malattia terminale, all'età di 82 anni. Devo dire che io non mi sono troppo interessato al "problema difficile" della coscienza - anzi, io non lo vedo affatto come un problema; ma sono triste perché non vedrò la nuova fisica nucleare che figura il dottor Wilczek, né mille altre scoperte nel campo delle scienze fisiche e biologiche.

Qualche settimana fa, in campagna, lontano dalle luci della città, ho visto tutto il cielo "impolverato di stelle" [N.d.T.1] (nelle parole di Milton); un cielo simile, ho immaginato, potrebbe essere visto solo da secchi altipiani, come quello di Atacama in Cile (dove si trovano alcuni dei telescopi più potenti del mondo). È stato questo splendore celeste che improvvisamente mi ha fatto capire quanto poco tempo, quanta poca vita, mi rimaneva. Il mio senso di bellezza del cielo, di eternità, era inseparabilmente mista per me a un senso di transitorietà - e morte.

Ho detto ai miei amici Kate e Allen, "Mi piacerebbe vedere di nuovo un cielo simile quando starò morendo."

"Porteremo la sedia a rotelle fuori", mi hanno detto.

Sono stato confortato, da quando nel mese di febbraio ho scritto di avere un cancro metastatico, dalle centinaia di lettere che ho ricevuto, le manifestazioni di amore e apprezzamento, e la sensazione che (nonostante tutto) forse ho vissuto una vita buona e utile. Sono molto contento e grato di tutto questo - ma niente di tutto ciò mi colpisce come ha fatto quel cielo notturno pieno di stelle.

Ho avuto la tendenza fin dall’infanzia ad aver a che fare con la perdita - perdere le persone a me care - rivolgendomi al non umano. Quando sono stato mandato in collegio a 6 anni, all'inizio della Seconda Guerra Mondiale, i numeri sono diventati miei amici; quando sono tornato a Londra a 10 anni, gli elementi e la tavola periodica sono diventati i miei compagni. Momenti di stress per tutta la mia vita mi hanno portato ad avvicinarmi, o tornare, alle scienze fisiche, un mondo dove non c'è vita, ma neanche morte.

E adesso, in questo frangente, quando la morte non è più un concetto astratto, ma una presenza - una fin troppo vicina, presenza che non può essere negata – mi sto circondando nuovamente, come ho fatto quando ero ragazzo , di metalli e minerali, piccoli emblemi d'eternità. Ad un’estremità della mia scrivania, ho l’elemento 81 in una scatolina, inviatami dagli amici degli elementi in Inghilterra: dice, "Buon compleanno di Tallio", un ricordo del mio 81° compleanno lo scorso luglio; poi, un regno devoto al piombo, l’elemento 82, per il mio 82° compleanno appena festeggiato all'inizio del mese. Proprio qui, in un piccolo scrigno di piombo, è contenuto l’elemento 90, torio, torio cristallino, bello come diamanti, e, naturalmente, radioattivo - da qui il cofanetto di piombo.

All’inizio dell’anno, nelle settimane dopo che ho saputo di avere il cancro, mi sentivo abbastanza bene, nonostante il mio fegato fosse per metà occupato da metastasi. Quando il cancro nel mio fegato è stato trattato nel mese di febbraio con l’iniezione di piccole bolle nelle arterie epatiche - una procedura chiamata embolizzazione - mi sono sentito malissimo per un paio di settimane, poi benissimo, carico di energia fisica e mentale. (Le metastasi erano state quasi tutte spazzate via dall’embolizzazione.) Mi era stata data non una remissione, ma una pausa, un momento per approfondire le amicizie, vedere i pazienti, scrivere, e tornare alla mia terra d’origine, l’Inghilterra. In quel periodo la gente stentava a credere che avessi una condizione terminale, e potevo facilmente dimenticarmene io stesso.

Questo senso di salute ed energia ha cominciato a declinare tra maggio e giugno, ma sono stato in grado di festeggiare il mio 82° compleanno in grande stile. (Auden diceva che bisogna sempre festeggiare il proprio compleanno, non importa come ci si sente.) Ma ora ho qualche nausea e perdita di appetito; brividi nel corso della giornata, sudorazioni notturne; e, soprattutto, una stanchezza diffusa, con improvviso senso di sfinimento se esagero le cose. Continuo a nuotare tutti i giorni, ma più lentamente ora, dato che sto cominciando a sentire un po' il fiato corto. Potevo negarlo prima, ma ora so che sono malato. Una TAC il 7 luglio ha confermato che le metastasi non solo sono ricresciute nel mio fegato, ma si sono ormai diffuse anche altrove.

Ho iniziato un nuovo tipo di trattamento - immunoterapia - la scorsa settimana. Non è priva di rischi, ma spero che mi darà qualche altro mese buono. Ma prima di iniziarlo, volevo divertirmi un po’: un viaggio in North Carolina per vedere il meraviglioso centro di ricerca sui lemuri presso la Duke University. I lemuri sono vicini al ceppo ancestrale dal quale sono nati tutti i primati, e sono felice di pensare che uno dei miei antenati, 50 milioni di anni fa, era una piccola creatura che viveva sugli alberi non molto dissimile dai lemuri di oggi. Amo la loro vitalità salterina, la loro natura curiosa.

Accanto al cerchio di piombo sul mio tavolo c’è la terra di bismuto: bismuto naturale dall’Australia; piccoli lingotti di bismuto a forma di limousine da una miniera in Bolivia; bismuto fuso raffreddato lentamente per formare bei cristalli iridescenti terrazzati come un villaggio Hopi; e, in un’allusione a Euclide e alla bellezza della geometria, un cilindro e una sfera in bismuto.

Il bismuto è l’elemento 83. Non credo che vedrò il mio 83° compleanno, ma sento che c'è qualcosa di speranzoso, qualcosa di incoraggiante, nell’avere un po’ di "83" in giro. Inoltre, ho un debole per il bismuto, un metallo grigio modesto, spesso non considerato, ignorato, anche dagli amanti del metallo. I miei sentimenti come medico per i maltrattati o gli emarginati si estendono nel mondo inorganico e trovano un parallelo nel mio affetto per il bismuto.

Quasi certamente non vedrò il mio (84°) compleanno del polonio, nè vorrei del polonio in giro, con la sua intensa radioattività omicida. Ma poi, all’altro capo del tavolo - la mia tavola periodica - ho un bellissimo pezzo di berillio (elemento 4) per ricordarmi della mia infanzia, e di quanto tempo fa la mia vita, quasi finita, è iniziata.

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Oliver Sacks è professore di neurologia presso la New York University School of Medicine e, più recentemente, autore del libro di memorie "In movimento" [N.d.T.2]


Note del Traduttore
N.d.T.1: Paradiso perduto, libro VII
N.d.T.2: Collana Biblioteca, Adelphi, Milano, 2015 (in pubblicazione a ottobre)

lunedì 20 luglio 2015

Perché la nutrizione confonde tanto

Traduzione di: Silvia Scuotto
Originally appeared on: The New York Times, by Gary Taubes


A quasi sei settimane dall'inizio della stagione della dieta 2014, è facile scommettere che molti di noi che tra i propositi del nuovo anno avevano deciso di perdere peso hanno già raggiunto il picco. Se gli studi clinici sono di una qualche indicazione, abbiamo perso gran parte del peso che ci si può aspettare di perdere. In un anno o due torneremo di nuovo a un paio di chili da dove siamo oggi.

La domanda è perché. Si tratta di un fallimento di forza di volontà o di tecnica? È stata la dieta che abbiamo scelto – che fosse dall'ultimo libro di dieta di successo o semplicemente un tentativo di mangiare meno e fare più esercizio fisico – a essere destinata al fallimento? Considerando che l'obesità e le malattie a essa correlate - in particolare, il diabete di tipo 2 - ora costano al sistema sanitario più di 1 miliardo di dollari al giorno, non è iperbolico suggerire che la salute della nazione può dipendere da quale sia la risposta corretta.

Dagli anni sessanta, la scienza della nutrizione è stata dominata da due osservazioni contrastanti. Una è che sappiamo come mangiare sano e mantenere un peso sano. L'altra è che i tassi di rapido aumento dell'obesità e del diabete suggeriscono che qualcosa circa il pensiero convenzionale è semplicemente sbagliato.

Nel 1960, meno del 13% degli americani erano obesi, e il diabete era stato diagnosticato per l'1%. Oggi, la percentuale di americani obesi è quasi triplicata; la percentuale di americani con il diabete è aumentata di sette volte.

Nel frattempo, la letteratura di ricerca sull'obesità è aumentata a dismisura. Nel 1960 sono stati pubblicati meno di 1.100 articoli sull'obesità o sul diabete nella letteratura medica indicizzata. L'anno scorso sono stati più di 44.000. In totale, sono stati pubblicati oltre 600.000 articoli con la pretesa di trasmettere alcune informazioni significative su queste patologie.

Sarebbe bello pensare che questo diluvio di ricerca abbia portato chiarezza sulla questione. I dati di tendenza sostengono il contrario. Se comprendiamo questi disturbi così bene, perché abbiamo fallito tanto miseramente nel prevenirli? La spiegazione convenzionale è che sia la manifestazione di una realtà spiacevole: il diabete di tipo 2 è causato o aggravato dall'obesità, e l'obesità è un disturbo complesso, intrattabile. Quanto più si impara, tanto più abbiamo bisogno di sapere.

Ecco un'altra possibilità: i 600.000 articoli - insieme alle diverse decine di migliaia di libri di dieta - sono il rumore generato da una ricerca stabilita in modo disfunzionale. Poiché la comunità di ricerca nutrizionale ha fallito nel dimostrare una conoscenza affidabile e inequivocabile circa i trigger ambientali dell'obesità e del diabete, ha aperto la porta a una diversità di opinioni in materia, a ipotesi circa causa, cura e prevenzione, molte delle quali non possono essere confutate da prove esistenti. Ognuno ha una teoria. Non esistono prove per dire in modo inequivocabile chi abbia torto.

La situazione è comprensibile; si tratta di una esperienza di apprendimento nei limiti della scienza. Il protocollo della scienza è il processo di ipotesi e test. Questa frase di tre parole, però, non gli rende giustizia. Il filosofo Karl Popper lo ha fatto quando ha descritto "il metodo della scienza come metodo di audaci congetture e tentativi ingegnosi e gravi per confutarle".

In nutrizione, le ipotesi sono speculazioni su quali cibi o abitudini alimentari aiutino o ostacolino la nostra ricerca di una vita lunga e sana. I tentativi ingegnosi e rigorosi per confutare le ipotesi sono i test sperimentali - gli studi clinici e, per essere precisi, studi clinici randomizzati controllati. Poiché le ipotesi sono in ultima analisi su ciò che ci accade nel corso di decenni, test significativi sono proibitivi ed estremamente difficili. Significa convincere migliaia di persone a cambiare ciò che mangiano per anni e decenni. Alla fine devono accadere abbastanza attacchi di cuore, tumori e morti fra i soggetti in modo che sia possibile stabilire se l'intervento dietetico è stato utile o dannoso.

E prima che tutto questo possa anche solo essere tentato, qualcuno deve pagare. Dal momento che nessuna azienda farmaceutica ne trarrebbe beneficio, potenziali fonti sono limitate, soprattutto quando insistiamo sulle risposte già note. Senza tali prove, però, stiamo solo immaginando di conoscere la verità.

Già negli anni sessanta, quando i ricercatori per la prima volta hanno preso sul serio l'idea che i grassi alimentari causassero malattie cardiache, hanno riconosciuto che tali test sarebbero stati necessari e ne hanno studiato la fattibilità per anni. Alla fine, la direzione della National Institutes of Health concluse che sarebbe stato troppo costoso - forse un miliardo di dollari - e avrebbero comunque potuto ottenere la risposta sbagliata. Avrebbero potuto pasticciare lo studio e non saperlo mai. Certamente non potevano permettersi di fare due di questi studi, anche se la replicazione è un principio fondamentale del metodo scientifico. Da allora, i consigli sul limitare i grassi o evitare i grassi saturi si sono basati su supposizioni circa ciò che sarebbe successo se fossero stati fatti tali test, e non sugli studi stessi.

I nutrizionisti si sono adeguati a questa realtà, accettando un livello inferiore di prove su ciò che crederanno esser vero. Fanno esperimenti con animali da laboratorio, per esempio, seguendoli per la parte migliore della vita dell'animale – un anno o due nel caso dei roditori - e suppongono, o almeno sperano, che i risultati si applichino agli esseri umani. E forse lo fanno, ma non possiamo saperlo con certezza senza fare esperimenti con gli umani.

Fanno esperimenti sugli esseri umani - le specie di interesse - per giorni o settimane o addirittura per un anno o due e poi suppongono che i risultati si applichino per decenni. E forse lo fanno, ma non possiamo esserne certi. È un'ipotesi, e deve essere testata.

E fanno quel che chiamano studi osservazionali, osservando le popolazioni per decenni, documentando ciò che la gente mangia e quali malattie li assalgono, e quindi suppongono che le associazioni che osservano tra la dieta e le malattie siano realmente causali - che se le persone che mangiano abbondanti verdure, per esempio, vivono più a lungo rispetto a quelli che non lo fanno, sono le verdure che provocano l'effetto di una vita più lunga. E forse lo fanno, ma non c'è modo di saperlo, senza test sperimentali per verificare questa ipotesi.

Le associazioni che emergono da questi studi sono conosciute solitamente come "dati generati da ipotesi", sulla base del fatto che un'associazione ci dice solo che due cose sono cambiate insieme nel tempo, non che una abbia causato l'altra. Quindi associazioni generano ipotesi di causalità che poi devono essere testate. Ma questa condizione generata da ipotesi è caduta nel corso degli anni, quando i ricercatori che studiano la nutrizione hanno deciso che questo è il meglio che possono fare.

Una lezione di scienza, però, è che se il meglio che puoi fare non è sufficiente per stabilire una conoscenza affidabile, prima di tutto riconoscilo - l'onestà implacabile su ciò che può e non può essere estrapolato dai dati è un altro principio fondamentale della scienza - e poi fai di più, o fai qualcos'altro. Così com'è, abbiamo un campo di una sorta-di-scienza nella quale le ipotesi sono trattate come fatti perché sono troppo difficili o costose da testare, e ci sono tante ipotesi che quelli che i giornalisti amano chiamare "autorità leader" si confutano a vicenda ogni giorno.

È una situazione inaccettabile. L'obesità e il diabete sono un'epidemia, ma il solo fatto rilevante su cui esistono dati relativamente non ambigui per supportare un consenso è che la maggior parte di noi sta sicuramente mangiando troppo di qualcosa. (Il mio voto è per gli zuccheri e i cereali raffinati; tutti abbiamo i nostri pregiudizi.) Fare incursioni significative contro l'obesità e il diabete a livello di popolazione richiede che noi sappiamo come trattarli e prevenirli a livello individuale. Dobbiamo smettere di credere di conoscere la risposta, e sfidare noi stessi ad affrontare test che fanno un lavoro migliore nel mettere alla prova le nostre convinzioni.

Prima che io, per esempio, faccia un altro proposito dietetico, mi piacerebbe sapere che ciò che credo di sapere riguardo una dieta sana è davvero così. Chiedo troppo?


mercoledì 15 luglio 2015

14 parole intraducibili spiegate grazie a incantevoli illustrazioni

Traduzione di: Silvia Scuotto
Originally appeared on: Ufunk.net 

 http://www.ufunk.net/en/artistes/untranslatable-words/
Illustrations copywright: Marija Tiurina 
https://www.behance.net/gallery/26302471/Untranslatable-Words 




Parole intraducibili spiegate grazie alle incantevoli illustrazioni dell'artista britannica Marija Tiurina, della quale raccomando anche progetti precedenti come Art Snacks e I 7 peccati capitali - versione gatto. Una serie molto carina con alcune parole strane e poetiche come Cafuné, Palegg, Gufra, Baku-Shan e così via, in linea con altri fantastici progetti come Found in translation e L'A-B-C delle parole insolite.


Cafuné (portoghese brasiliano):
L'atto di far scorrere teneramente le dita tra i capelli di qualcuno.


Baku-Shan (giapponese):
Una ragazza bellissima - fintanto che sia guardata di spalle.



Gufra (arabo):
La quantità d'acqua che può essere tenuta in una mano.



Palegg (norvegese):
Qualunque cosa tu riesca a mettere su una fetta di pane.



Age-otori (giapponese):
Peggiorare d'aspetto dopo un taglio di capelli.


Torschlusspanik (tedesco):
 "Panico da chiusura del cancello", o la paura che diminuiscano le opportunità col passare degli anni.
  

Tretar (svedese):
Fine a se stesso, "tar" significa "una tazza di caffè" e "patar" è il bis di tale tazza. Un "tretar" è un secondo bis, o "tris".


Duende (spagnolo):
Il misterioso potere, proprio di un'opera d'arte, di commuovere profondamente una persona.

Schlimazl (yiddish):
Una persona cronicamente sfortunata.


Kyoikumama (giapponese):
Una madre che fa incessantemente pressione ai figli per i risultati scolastici.


Schadenfreude (tedesco):
La sensazione di piacere all'assistere alle sfortune altrui.

Tingo (rapanui o pasquense):
L'atto di portar via oggetti desiderati da casa di un amico, chiedendoli un po' alla volta tutti in prestito.


Luftmensch (yiddish):
È riferito alle persone un po' sognatrici, letteralmente significa "persona d'aria".


L'appel duvide (francese):
"la chiamata del vuoto" è la traduzione letterale di questa espressione ma, più precisamente, è usata per descrivere il desiderio istintivo di saltare da posti alti.

venerdì 10 luglio 2015

Una mela al giorno, e altri miti

Traduzione di: Silvia Scuotto
Originally appeared on: The New York Times
, by George Johnson

http://www.nytimes.com/2014/04/22/science/an-apple-a-day-and-other-myths.html?_r=0


SAN DIEGO — Una passeggiata in quasi ogni libreria o un giro su internet potrebbero dare l'impressione che per evitare il cancro sia soprattutto una questione di guardare a ciò che si mangia. Una fonte dopo l'altra promuove i poteri protettivi di “supercibi”, ricchi di antiossidanti e di altri fitochimici, o consiglia ai lettori di emulare le diete dei contadini cinesi o dei cavernicoli del Paleolitico.

Ma vi è un ampio divario tra questo folklore nutrizionale e la scienza. Nel corso degli ultimi due decenni, la connessione tra i cibi che mangiamo e l'anarchia cellulare chiamata cancro è stata dipanata un pezzo alla volta.

Questo mese in occasione della riunione annuale della American Association for Cancer Research, un evento mastodontico che ha attirato qui più di 18.500 ricercatori e altri professionisti, gli ultimi risultati su dieta e cancro sono stati relegati a una singola sessione e alcune presentazioni sparse. C'erano nuovi spunti sul fatto che il caffè possa ridurre il rischio di alcuni tipi di cancro e molti sui possibili benefici della vitamina D. Al di là di questo, non c'era molto da dire.



Nella sessione plenaria di apertura, il Dr. Walter C. Willett, un epidemiologo di Harvard che ha trascorso molti anni a studiare cancro e nutrizione, sembrava quasi mesto nel dare rapporto sullo stato dei fatti. Sebbene ciò sia vero per altre patologie, quando si tratta di cancro c'era poca evidenza che frutta e verdura siano protettivi o che i cibi grassi facciano male.

Tutto ciò che si può dire con una qualche certezza è che controllare l'obesità è importante, come lo è anche per le malattie cardiache, il diabete di tipo 2, l'ipertensione, gli ictus e altre minacce alla vita. Evitare l'alcol in eccesso ha evidenti vantaggi. Ma a meno che una persona sia gravemente malnutrita, l'influenza di specifici alimenti è così debole da essere un segnale facilmente sommerso dal rumore. 

La situazione sembrava molto diversa nel 1997, quando il World Cancer Research Fund e l'American Institute for Cancer Research pubblicarono un rapporto, spesso come una rubrica telefonica, concludendo che le diete molto ricche di frutta e verdura avrebbero potuto ridurre l'incidenza di tumore di oltre il 20 cento.

Dopo aver esaminato più di 4.000 studi, gli autori erano persuasi del fatto che le verdure verdi contribuissero a tener lontano il cancro ai polmoni e allo stomaco. Il cancro al colon e alla tiroide si sarebbe potuto evitare con broccoli, cavoli e cavoletti di Bruxelles. Cipolle, pomodori, aglio, carote e agrumi sembravano tutti svolgere ruoli importanti.

Nel 2007, ci fu un importante controllo di approfondimento, che invertì i risultati. Mentre alcuni tipi di prodotti potrebbero avere discreti benefici, gli autori hanno concluso che “in nessun caso adesso la prova di protezione può essere giudicata convincente”.

Il motivo del cambiamento è stato prevalentemente epidemiologico. Gli studi precedenti tendevano a essere “retrospettivi”, basandosi sui ricordi di dettagli dietetici del lontano passato delle persone. Questi risultati sono stati spesso rovesciati dai protocolli potenziali”, nei quali la salute di popolazioni di grandi dimensioni era seguita in tempo reale.

Anche l'ipotesi che i cibi grassi siano una causa diretta di cancro è stata sgretolata, insieme con il caso di mangiare più fibreL'idea che la carne rossa provochi il cancro al colon è avvolta nell'ambiguità. Due meta-analisi pubblicate nel 2011 hanno raggiunto conclusioni contrastanti - una ha trovato una piccola traccia, l'altra nessun legame affatto.

Se gli hamburger sono cancerogeni, l'effetto sembra essere debole. Uno studio suggerisce che un uomo di 50 anni che mangia una notevole quantità di carne rossa - circa 150 grammi al giorno - alza la sue probabilità di ammalarsi di cancro colon-rettale da 1,28% a 1,71% nel corso del prossimo decennio. Diffuso su una popolazione di milioni di persone, avrebbe un impatto. Dal punto di vista di un individuo, sembra contar poco a stento. 

Cercare di estirpare gli effetti deboli da un groviglio di variabili, molte delle quali sconosciute, porta inevitabilmente ad un tiro alla fune di notizie contraddittorie. (Mentre la riunione di San Diego si stava concludendo, un nuovo documento sulle diete ad alto contenuto di grassi e il cancro al seno ha suggerito che ci potrebbe essere un collegamento, dopo tutto.)

Anche con gli studi più rigorosi, è difficile regolarsi su quello che gli epidemiologi chiamano fattori di confondimento: mangiatori assidui di frutta e verdura probabilmente pesano di meno, fanno esercizio fisico più spesso e curano la propria salute in altri modi. Alcuni di questi possono essere organizzati con studi randomizzati e controllati, con due grandi gruppi di persone arbitrariamente assegnate a diete differenti. Ma questi studi sono costosi, e le regole sono difficili da rispettare nel breve periodo - e probabilmente impossibili nel corso degli anni che impiega un cancro a svilupparsi.

L'enfasi in occasione della riunione verteva su altre cose: nuove immunoterapie, il ruolo delle infiammazioni croniche e i sotterfugi infinitamente complessi delle cellule tumorali. Con il suo focus sulla nutrizione, il Dr. Willett sembrava il terzo incomodo.

Il rapporto tra dieta e cancro si è rivelato più complesso e impegnativo di quanto ci aspettassimo”, ha detto, dritto come un chiodo al leggio. Ci sono stati alcuni motivi di ottimismo.  Uno studio dello scorso anno ha suggerito che, mentre mangiare un sacco di prodotti non ha avuto effetto sulla maggior parte dei tumori al seno, le verdure possono ridurre l'insorgenza di un tipo chiamato estrogeno-negativo. Ridurre l'assunzione di latte e altri prodotti lattiero-caseari potrebbe eventualmente ridurre il rischio di cancro alla prostata. Ora che gli epidemiologi hanno cominciato a seguire la salute delle popolazioni più giovani, il Dr. Willett spera che potrebbero emergere ancora più influenze dietetiche.

Quella sera a un ricevimento offerto dal M. D. Anderson Cancer Center, agli ospiti fu offerto un ricco buffet che comprendeva, tra gli altri piatti, spesse fette di arrosto di manzo, una varietà di formaggi ricchi e abbondanti quantità di vino. In seguito è stato offerto il rinomato buffet di dolci dell'associazione per la ricerca sul cancro.

La mattina dopo gli scienziati erano nuovamente alla riunione, con il caffè in mano, correndo da una sessione all'altra. Qualcuno potrebbe essersi soffermato a studiare un display nella sala da pranzo, riconoscendo il 50° anniversario della relazione del chirurgo sulla relazione tra fumo e cancro.

Nel contrastare questa malattia, la campagna contro il tabacco è stata la cosa più vicina a un trionfo. Ma ora che il fumo è in declino in questo paese, l'obesità è in aumento. Essere grassi (al contrario di mangiare grasso), ha suggerito il Dr. Willett, può ora essere la causa di tumori più letali rispetto alle sigarette. 

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Sito web: talaya.net.
Twitter: @byGeorgeJohnson.