Traduzione
di: Silvia Scuotto
Originally
appeared on: The New Yorker, by Alastair Gee
Nel 1727,
uno scrittore e redattore di nome Lewis Theobald stava per svelare
“Doppia falsità”, una tragicommedia che diceva essere basata sui
manoscritti di un’opera perduta di Shakespeare. “Il buon vecchio
Maestro del dramma inglese, per una sorta di miracolo, è richiamato
dalla tomba, e dato a noi, ancora una volta”, riportò il London
Journal, quando emerse la notizia del progetto di Theobald. Da
allora, però, il lavoro ha presentato delle difficoltà per i
guardiani del canone. Per uno, i manoscritti sono scomparsi. Per un
altro, Theobald ha una reputazione di luci e ombre; è stato accusato
di plagio per la sua opera “The Perfidious Brother”, e il suo
ruolo da protagonista nel poema satirico di Alexander Pope “La
zucconeide” non aiuta le cose. Poi vi è il testo stesso, che non è
particolarmente buono. Certamente “Doppia falsità” contiene echi
di Shakespeare (“A gleam of day breaks sudden from her window”),
ma per la maggior parte la lingua cede o è sgraziata. Il Bardo
avrebbe mai detto di una donna di essere così bella che il suo viso
potrebbe far “saltare un eremita ghiacciato dalla sua cella” per
baciarla? (Beh, forse no, ma ha scritto che “Un anacoreta grinzoso,
relitto di cento inverni,/ ne scrollerebbe cinquanta di dosso a
guardarla negli occhi” [N.d.T.1])
Nel 2010,
Theobald fu parzialmente alleggerito della sua ignominia: “Doppia
falsità” è stato pubblicato come parte della rispettata serie
Arden su Shakespeare. “Non è ‘Re Lear’ - ne dobbiamo
convenire”, mi ha detto Brean Hammond, curatore dell’edizione. “E
dobbiamo concordare sul fatto che sia priva di molti tipi di densità
metaforica - il fitto intreccio metaforico dei passaggi - per cui
apprezziamo Shakespeare.” Tuttavia, Hammond e una serie di altri
studiosi ritengono che l’opera, a differenza delle decine di altre
che sono state provvisoriamente attribuite a Shakespeare, interamente
o in parte, nel corso dei secoli, presenti le ossa di alcuni primi
lavori, in cui è stato coinvolto il drammaturgo. Robert Folkenflik,
professore emerito di inglese presso la University of California,
Irvine, ha detto di aver sentito, una volta, paragonare “Doppia
falsità” a “una vecchia strada acciottolata che, sebbene sia
stata asfaltata, mostra ancora questi ciottoli che spuntano fuori.”
Varie prove
sono state citate - e dibattute - come dimostrazioni della
provenienza dell’opera. Una voce in un registro editoriale quasi
quattro decenni dopo la morte di Shakespeare, per esempio, sembra
indicare che lui e John Fletcher, suo occasionale collaboratore,
avessero scritto un precursore di “Doppia falsità”. (Il registro
annovera anche Shakespeare come autore di alcune opere decisamente
discutibili. Mai sentito parlare di “The Merry Devil of Edmonton”?)
Poi, nel mese di aprile, sono emerse nuove prove da un angolo
improbabile: la rivista Psychological Science. Su suggerimento di
Folkenflik, una coppia di ricercatori presso la University of Texas
ad Austin - James Pennebaker e uno dei suoi studenti laureati, Ryan
Boyd - aveva effettuato un’analisi linguistica di “Doppia
falsità”. Nei suoi studi precedenti, Pennebaker aveva trovato una
correlazione tra come gli studenti utilizzino articoli e preposizioni
nei loro saggi per l’iscrizione all’università e i voti che
prenderanno, e tra la scrittura autoreferenziale e la probabilità di
suicidi nei poeti. “Sentivo che fosse importante guardare a questo
studio come uno scienziato freddo: Ecco i numeri, non ho nulla da
perdere, non importa cosa venga fuori”, ha detto Pennebaker.
Lo studio è
stato incentrato in parte su parole funzionali, la classe pesante ma
poco affascinante che comprende pronomi, articoli, e preposizioni -
“I,” “you,” “the,” “a,” “an,” “on,” “in,”
“under”. Come ha scritto Pennebaker, ce ne sono solo circa
quattrocentocinquanta in inglese, ma rappresentano il cinquantacinque
per cento delle parole che usiamo, il collante linguistico che tiene
insieme il tutto, ma passa per lo più inosservato. “Non riusciamo
a sentirli” mi ha detto di recente Pennebaker. “Io e te ormai
stiamo parlando da dieci minuti, e non hai idea se io abbia usato gli
articoli ad un ritmo elevato o meno. Io non ne ho idea”. Ognuno ha
uno schema, però, e questo è ciò che lui e Boyd hanno ricercato in
una serie di opere di Shakespeare, Theobald e Fletcher. Hanno anche
preso in considerazione altre abitudini, come ad esempio frasi di tre
parole tipiche di ciascun autore; per Shakespeare, questi comprendono
“my lord your”, “what says thou”, e “as it were”. (“Bel
lavoro, Shakey”, ha commentato Boyd.)
In generale,
i risultati delle analisi su “Doppia falsità” indicano che le
voci di Shakespeare e Fletcher predominano, e che quella di Theobald
è minimamente presente. Si potrebbe obiettare che, se Theobald era
intenzionato a imitare Shakespeare, avrebbe sicuramente imitato il
suo linguaggio. Ma l’uso delle parole funzionali è molto difficile
da imitare, mi hanno detto Boyd e Pennebaker. Come con altri tic
linguistici, le propensioni proprie di uno scrittore ci scorrerebbero
attraverso. “Il richiamo del cuculo”, un romanzo poliziesco, non
poteva che essere stato scritto dall’autrice fantasy J. K. Rowling;
Federalist No. 49, sebbene pubblicato sotto pseudonimo, non poteva
che essere stato scritto da James Madison. Infatti, come riportato
nel mese di marzo da Maria Konnikova, i modelli di parole funzionali
e altri parametri possono essere in grado di stabilire non solo la
voce di un autore, ma anche il suo carattere e stato d’animo.
Pennebaker ha già prodotto strumenti grezzi scansionano i tweet
della gente per segnali di depressione e ansia. Lo studio su “Doppia
falsità” ha voluto far luce in modo simile sulla psicologia del
Bardo, sottolineando, ad esempio, che il suo “stile di scrittura
relativamente dinamico e il relativamente alto uso di parole di
contenuto sociale” delinerebbero qualcuno che era “socialmente
impegnato e interessato a salire sempre più su la scala sociale”.
Fare
data-mining su Shakespeare è, come avrebbe potuto dire il conte di
Worcester, “quanti ne potreste incontrar nell'attraversare un
torrente, fra il mugghio e l'alto strepitar dell'acque, sull'incerto
sostegno d'una lancia” [N.d.T.2]. Lo studio di Boyd e Pennebaker,
in altre parole, non è stato universalmente lodato. Anche se gli
esperti con i quali ho parlato erano generalmente entusiasti della
prova linguistica della paternità dell’opera, molti erano
sprezzanti nei confronti dei tentativi di elaborare un profilo
psicologico del drammaturgo. Ron Rosenbaum, autore di “The
Shakespeare Wars” [N.d.T.3], ha messo in dubbio anche lo scopo
dello studio. “È così selvaggiamente riduttivo cercare di ridurre
la letteratura a qualche algoritmo”, mi ha detto. “Il modo per
capire Shakespeare è rileggerlo continuamente”. Come prova della
sua tesi, Rosenbaum ha posto come esempio “A Funeral Elegy”, una
poesia inizialmente attribuita a Shakespeare, con l’aiuto di un
database chiamato Shaxicon, e poi, su consiglio di un lettore umano
del tutto meno algoritmico, riattribuito a John Ford, autore della
commedia “Peccato che sia una sgualdrina”. Ma Gary Taylor, un
curatore della raccolta Oxford Shakespeare, vede qualcosa in più del
principio accademico in gioco. “Molti grandi scrittori e critici
letterari hanno scelto di concentrarsi sull’inglese perché
odiavano la matematica”, mi ha detto.
Note del
Traduttore
N.d.T.1:
Pene d’amor perdute, atto IV, scena III - Traduzione di Andrea
Cozza, Oscar Classici Mondadori, 1993
N.d.T.2:
Enrico IV, prima parte, atto I, scena III - Traduzione di Maria
Antonietta Andreoni D’Ovidio, in: Shakespeare tutto il teatro,
Newton Compton, 1990
N.d.T.3: Non
è stata ancora pubblicata una traduzione italiana di “The
Shakespeare Wars” di Ron Rosenbaum
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