sabato 20 giugno 2015

Knausgaard o Ferrante?

Traduzione di: Silvia Scuotto
Originally appeared on: The New Yorker
, by Joshua Rothman

http://www.newyorker.com/culture/cultural-comment/knausgaard-or-ferrante

 Illustrazione di Boyoun Kim


Nel 1959, il critico letterario George Steiner pubblicò un libro intitolato Tolstoj o Dostoevskij”. Non chiedeva quale scrittore fosse migliore - erano titani entrambi”, secondo Steiner. Chiedeva, invece, cosa potesse significare la preferenza di una persona di uno dei due rispetto all’altro. Scopri quale dei russi un lettore preferisce e perché, sosteneva Steiner, e credo, penetrerai nella sua stessa natura”, perché un’affinità con Tolstoj o Dostoevskij impegna limmaginazione a una delle due interpretazioni radicalmente opposte del destino dell’uomo, del futuro storico, e del mistero di Dio”.

I romanzieri titanici del momento letterario corrente sono Elena Ferrante e Karl Ove Knausgaard, e la tentazione di confrontarli è altrettanto irresistibile. Come Tolstoj e Dostoevskij, Knausgaard e Ferrante sono geni uguali i cui libri incarnano valori opposti. Leggendo La mia lotta affianco ai romanzi napoletani, non si può fare a meno di tendere da un lato o dallaltro, scoprendo di sentirsi più a casa in Norvegia piuttosto che a Napoli, o di sentirsi più come Elena (o la sua amica Lila) che come Karl Ove. La meta-domanda, naturalmente, è cosa significhino queste affinità. Cosa cè in gioco quando optiamo per la neve rispetto al sole, la rabbia all’imbarazzo, le aringhe al prosciutto, le donne agli uomini, il nord al sud, il 1955 al 1985? Che cosa suggerisce di noi la nostra preferenza per Knausgaard o Ferrante?

La rivalità dipende dalla somiglianza, e la prima cosa da riconoscere è che Knausgaard e Ferrante sono sorprendentemente simili. Non è solo il fatto di aver scritto entrambi cronache in più volumi che creano dipendenza, attraverso le quali gli Americani possono immaginare una loro vita europea alternativa. È che i loro romanzi esplorano temi simili raccontano anche storie simili. Karl Ove ed Elena hanno un nucleo di esperienze in comune.

Ho il sospetto che solo Elena la metterebbe in questi termini, ma una delle loro esperienze comuni è il patriarcato, soprattutto nella manifestazione della violenza maschile e le sue ripercussioni. “Non provo nostalgia per la nostra infanzia: era piena di violenza”, ci dice Elena in “Lamica geniale”.La sua furia colpì come unonda, si innalzò per le stanze, infrangendosi e infrangendosi ancora su di me”, dice Karl Ove, di suo padre, nel secondo libro di La mia lotta”. Nel quarto libro, che sarà pubblicato negli Stati Uniti il ​​mese prossimo, Karl Ove e suo fratello Yngve si ritrovano a parlare della loro infanzia e di “andare di un incidente dopo laltro”. Una volta, Yngve perse delle monetine e il padre lo buttò in cantina. Quando la ruota della sua bicicletta si sgonfiò, il padre “gonfiò” lui. “Il punto in queste storie era sempre lo stesso, la sua furia era sempre innescata da qualche particolare insignificante, qualche assoluta banalità, e come tale era, in effetti, comica. In ogni caso abbiamo riso quando le abbiamo raccontate”, scrive Karl Ove. “È stato completamente assurdo: ho vissuto nella paura di lui, ho detto, e Yngve disse che papà controllava lui e i suoi pensieri, anche adesso.

Si dice spesso che La mia lotta sia un libro sulla banalità, domesticità, e quotidianità, ma questi non sono i suoi temi principali. In fondo, si tratta di un libro sulla paura - peggiore di tutta la paura che evoca Yngve quando dice che papà controllava lui e i suoi pensieri, anche adesso. Karl Ove teme che suo padre, terrorizzandolo, lo abbia anche formato. Lo ha fatto, certo - quale bambino non viene formato dai suoi genitori? - e quando Karl Ove descrive la rabbia di suo padre e gli insignificanti fattori scatenanti, sta descrivendo anche se stesso, così come abbiamo imparato a conoscerlo nel corso di migliaia di pagine. Per Karl Ove, la possibilità che egli covi la stessa rabbia di suo padre è fonte di terrore e, soprattutto, di vergogna.

Elena e Lila vivono in un mondo più apertamente modellato da uomini capricciosi e violenti (fai la mossa sbagliata, e un uomo “ti spaccherà la faccia”), e anche la loro esperienza di vita dopo la violenza è  profondamente inquietante. Stefano, il figlio di don Achille, uno strozzino locale, sembra sinceramente convinto di essersi scrollato di dosso le tendenze violente del padre, ma si sbaglia - in un sol colpo, Elena scrive, “lombra di Don Achille potrebbe ingrossargli le vene del collo e la rete blu sotto la pelle della fronte”. (“È possibile che i nostri genitori non muoiano mai, che ogni figlio li nasconda inevitabilmente in se stesso?” chiede). Si scopre, poi, che la violenza non è solo espressa o sperimentata attraverso il corpo. La personalità di Lila si organizza intorno allidea che si deve incutere paura in coloro che vogliono incutere paura in te”. Pietro, il professore che Elena sposa, usa il suo potere in modo passivo-aggressivo: semplicemente non è in grado di trovare interessante i pensieri della moglie a meno che non rispecchino i suoi. Nessuno sapeva meglio di me cosa significasse rendere maschili i propri pensieri in modo tale che fossero accettati da una cultura di uomini”, scrive Elena.

La mia lotta e i romanzi napoletani non raccontano semplicemente la storia di questi primi anni difficili, naturalmente. Nonostante le superfici lisce, sono libri meta-romanzeschi - sia Karl Ove che Elena sono scrittori (e alter-ego autoriali) - e si estendono nel presente, quando Elena e Karl Ove stanno scrivendo i libri che stiamo leggendo. Per loro, il passato non è solo in attesa, inerte, per essere descritto: il passato ha un proprio piano, e devono lottare per vederlo chiaramente, descriverlo onestamente, e capirlo. Una gran quantità di dramma in questi libri viene da questa difficoltà nel tempo presente.

Nei romanzi napoletani, l’amica di Elena, Lila, rappresenta il passato: lenergia del quartiere dove sono cresciute è concentrata in lei, e lei è la musa di Elena. Allo stesso modo, si scrive della resistenza di Lila: Stai facendo il so-tutto-io, il moralizzatore? chiede a Elena. “Vuoi scrivere di noi? Vuoi scrivere di me? ... Verrò a guardare nel tuo computer, leggerò i tuoi file, li cancellerò”. In La mia lotta, la polarità è invertita: un passato vergognoso, turbato, e imbarazzante sembra fluire inarrestabile nel presente. Nel quarto libro, quando il padre di Karl Ove cerca di scusarsi (Ho fatto male un sacco di cose), Karl Ove suggerisce di dimenticare tutto: “Molte cose sono successe, ma non importa più”. “SI, INVECE!tuona il padre.

Sia in Knausgaard che in Ferrante, questo sforzo dello scrittore di affrontare il passato si sovrappone alla sfida giovanile di oppressione e resistenza. Si tratta di libri su giovani che tentano di liberarsi da quel che hanno ereditato, scritti da persone adulte che cercano di entrare in un rapporto corretto con i se stessi giovani. La qualità brillante di questi romanzi - il senso che in ogni paragrafo, a prescindere dal contenuto, è vitale - è il risultato di questa duplicità. Una volta, sembrano dire, ero giovane, e nonostante la paura ho resistito contro il mondo che mi veniva presentato. Adesso sono cresciuto, e il mio passato è qualcosa che devo respingere o accettare. O forse c’è un’alternativa alla resistenza e all’accettazione:  questi romanzi sembrano essere costruzioni verso idee metafisiche su come i noi stessi di oggi  si relazionino all’interezza delle nostre vite. Queste idee potranno risultare più chiare nei volumi a venire.

Ferrante e Knausgaard hanno questi grandi temi in comune. E sono anche simili in altri piccoli dettagli. Sono entrambi portati alla narrazione seriale: i loro libri sono una cosa dopo l’altra. Sono entrambi affascinati dalle emozioni forti, soprattutto quelle che sembrano inspiegabili alla luce del giorno. Entrambi scrivono - o si presume scrivano - autobiograficamente. (Perché le seriali cronache autobiografiche di emozioni raccolte in tranquillità dovrebbero essere così convincenti in questo momento? Una domanda per unaltra volta). Ci sono, al contrario, molte piccole differenze. Knausgaard è ironico, Ferrante più grave; Knausgaard è piacevole, Ferrante propulsiva; Knausgaard è un esteta, nota i momenti, mentre Ferrante è una drammaturga, un’orchestratrice di scene.

La differenza più evidente è ovvia: la politica. Le donne dei romanzi di Ferrante sono impegnate in una lotta politica, mentre Karl Ove non lo è; entrambi gli scrittori lottano con il problema della violenza maschile, ma solo i libri di Ferrante sono significativamente femministi. È allettante, quindi, dire che la politica è ciò che è in gioco nella preferenza per uno scrittore sullaltro - che i lettori dalle anime politiche, che vogliono pensare alla giustizia e alla storia, graviteranno verso Ferrante, mentre gli esteti saranno inclini a Knausgaard.

Il mio sospetto, però, è che le differenze siano più profonde di così. Nelle prime pagine del libro uno, Karl Ove, da bambino, guarda, in televisione, unoperazione di ricerca e salvataggio in mare. Tra le onde, crede di vedere un volto - “Fisso la superficie del mare senza ascoltare quel che dice il giornalista, e allimprovviso emerge la sagoma di un volto”, scrive. Ne è così affascinato, così trasportato, che corre a dirlo al padre, che lo rimprovera (“Adesso cerchiamo di non sentire più nulla riguardo quel volto”). Da adulti, scrive in seguito, “Il nostro mondo è racchiuso intorno a sé, intorno a noi, e non cè via di uscita”. Allo stesso modo, è portato a credere che ci sia qualcosa al di là del mondo racchiuso - qualcosa che non parlava, e che nessuna parola potrebbe cogliere, quindi per sempre fuori della nostra portata, ma al suo interno, perché non solo ha circondato noi, eravamo noi stessi parte di esso, eravamo noi stessi suoi”. Parte della magia di La mia lottaè che va, di volta in volta, in questo altro mondo inconoscibile. A differenza di Ferrante, Knausgaard è nostalgico nei confronti della sua infanzia, perché mentre era nel suo momento più vulnerabile, al contempo era anche nel più ricettivo. Questa scena, collocata proprio allinizio di La mia lotta, delinea cosa cè in gioco nel romanzo nel suo complesso: si svolgerà in un universo ampio e inconoscibile, e sarà unesplorazione di ricettività, in tutte le sue varietà.

Il senso della realtà di Ferrante, non è trascendente in questo modo. Nei suoi libri, il prestigio si ottiene nel qui-e-ora e non altrove. Quando Elena incontra Lila da adulta, Lila comunica, attraverso la diffidenza, la dignità e limmersione nelle sue circostanze, lidea che il mondo reale è questo mondo, esattamente comè:
Lei mi stava spiegando che non avevo vinto nulla, che nel mondo non cè nulla da vincere, che la sua vita era piena di avventure varie e folli quanto la mia, e che il tempo semplicemente scivolava via senza alcun significato, ed era bello vedersi anche solo ogni tanto per sentire il suono folle del cervello di una fare eco nel suono folle del cervello dellaltra.
Si tratta di due visioni della realtà. Knausgaard ci offre accenni dellaldilà mentre Ferrante ci offre la dignità e la concretezza del mondo che condividiamo. Solitudine o amicizia; spiritualità o materialità; linvisibile o ciò che è proprio di fronte a voi; il mondo inconoscibile o il mondo così comè - questi sono alcuni degli impegni che stanno dietro la nostra preferenza per Knausgaard o Ferrante.

1 commento:

  1. Articolo davvero interessante. Ti spiace se ti segnalo che su Agon Channel tutti i giorni alle 13 c'è "Quello che le donne non dicono", talk show al femminile condotto da Monica Setta: ogni giorno ci sono 2 ospiti che si confrontano?

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