domenica 5 luglio 2015

L'algoritmo di Shakespeare

Traduzione di: Silvia Scuotto
Originally appeared on: The New Yorker, by Alastair Gee


Nel 1727, uno scrittore e redattore di nome Lewis Theobald stava per svelare “Doppia falsità”, una tragicommedia che diceva essere basata sui manoscritti di un’opera perduta di Shakespeare. “Il buon vecchio Maestro del dramma inglese, per una sorta di miracolo, è richiamato dalla tomba, e dato a noi, ancora una volta”, riportò il London Journal, quando emerse la notizia del progetto di Theobald. Da allora, però, il lavoro ha presentato delle difficoltà per i guardiani del canone. Per uno, i manoscritti sono scomparsi. Per un altro, Theobald ha una reputazione di luci e ombre; è stato accusato di plagio per la sua opera “The Perfidious Brother”, e il suo ruolo da protagonista nel poema satirico di Alexander Pope “La zucconeide” non aiuta le cose. Poi vi è il testo stesso, che non è particolarmente buono. Certamente “Doppia falsità” contiene echi di Shakespeare (“A gleam of day breaks sudden from her window”), ma per la maggior parte la lingua cede o è sgraziata. Il Bardo avrebbe mai detto di una donna di essere così bella che il suo viso potrebbe far “saltare un eremita ghiacciato dalla sua cella” per baciarla? (Beh, forse no, ma ha scritto che “Un anacoreta grinzoso, relitto di cento inverni,/ ne scrollerebbe cinquanta di dosso a guardarla negli occhi” [N.d.T.1])

Nel 2010, Theobald fu parzialmente alleggerito della sua ignominia: “Doppia falsità” è stato pubblicato come parte della rispettata serie Arden su Shakespeare. “Non è ‘Re Lear’ - ne dobbiamo convenire”, mi ha detto Brean Hammond, curatore dell’edizione. “E dobbiamo concordare sul fatto che sia priva di molti tipi di densità metaforica - il fitto intreccio metaforico dei passaggi - per cui apprezziamo Shakespeare.” Tuttavia, Hammond e una serie di altri studiosi ritengono che l’opera, a differenza delle decine di altre che sono state provvisoriamente attribuite a Shakespeare, interamente o in parte, nel corso dei secoli, presenti le ossa di alcuni primi lavori, in cui è stato coinvolto il drammaturgo. Robert Folkenflik, professore emerito di inglese presso la University of California, Irvine, ha detto di aver sentito, una volta, paragonare “Doppia falsità” a “una vecchia strada acciottolata che, sebbene sia stata asfaltata, mostra ancora questi ciottoli che spuntano fuori.”

Varie prove sono state citate - e dibattute - come dimostrazioni della provenienza dell’opera. Una voce in un registro editoriale quasi quattro decenni dopo la morte di Shakespeare, per esempio, sembra indicare che lui e John Fletcher, suo occasionale collaboratore, avessero scritto un precursore di “Doppia falsità”. (Il registro annovera anche Shakespeare come autore di alcune opere decisamente discutibili. Mai sentito parlare di “The Merry Devil of Edmonton”?) Poi, nel mese di aprile, sono emerse nuove prove da un angolo improbabile: la rivista Psychological Science. Su suggerimento di Folkenflik, una coppia di ricercatori presso la University of Texas ad Austin - James Pennebaker e uno dei suoi studenti laureati, Ryan Boyd - aveva effettuato un’analisi linguistica di “Doppia falsità”. Nei suoi studi precedenti, Pennebaker aveva trovato una correlazione tra come gli studenti utilizzino articoli e preposizioni nei loro saggi per l’iscrizione all’università e i voti che prenderanno, e tra la scrittura autoreferenziale e la probabilità di suicidi nei poeti. “Sentivo che fosse importante guardare a questo studio come uno scienziato freddo: Ecco i numeri, non ho nulla da perdere, non importa cosa venga fuori”, ha detto Pennebaker.

Lo studio è stato incentrato in parte su parole funzionali, la classe pesante ma poco affascinante che comprende pronomi, articoli, e preposizioni - “I,” “you,” “the,” “a,” “an,” “on,” “in,” “under”. Come ha scritto Pennebaker, ce ne sono solo circa quattrocentocinquanta in inglese, ma rappresentano il cinquantacinque per cento delle parole che usiamo, il collante linguistico che tiene insieme il tutto, ma passa per lo più inosservato. “Non riusciamo a sentirli” mi ha detto di recente Pennebaker. “Io e te ormai stiamo parlando da dieci minuti, e non hai idea se io abbia usato gli articoli ad un ritmo elevato o meno. Io non ne ho idea”. Ognuno ha uno schema, però, e questo è ciò che lui e Boyd hanno ricercato in una serie di opere di Shakespeare, Theobald e Fletcher. Hanno anche preso in considerazione altre abitudini, come ad esempio frasi di tre parole tipiche di ciascun autore; per Shakespeare, questi comprendono “my lord your”, “what says thou”, e “as it were”. (“Bel lavoro, Shakey”, ha commentato Boyd.)

In generale, i risultati delle analisi su “Doppia falsità” indicano che le voci di Shakespeare e Fletcher predominano, e che quella di Theobald è minimamente presente. Si potrebbe obiettare che, se Theobald era intenzionato a imitare Shakespeare, avrebbe sicuramente imitato il suo linguaggio. Ma l’uso delle parole funzionali è molto difficile da imitare, mi hanno detto Boyd e Pennebaker. Come con altri tic linguistici, le propensioni proprie di uno scrittore ci scorrerebbero attraverso. “Il richiamo del cuculo”, un romanzo poliziesco, non poteva che essere stato scritto dall’autrice fantasy J. K. Rowling; Federalist No. 49, sebbene pubblicato sotto pseudonimo, non poteva che essere stato scritto da James Madison. Infatti, come riportato nel mese di marzo da Maria Konnikova, i modelli di parole funzionali e altri parametri possono essere in grado di stabilire non solo la voce di un autore, ma anche il suo carattere e stato d’animo. Pennebaker ha già prodotto strumenti grezzi scansionano i tweet della gente per segnali di depressione e ansia. Lo studio su “Doppia falsità” ha voluto far luce in modo simile sulla psicologia del Bardo, sottolineando, ad esempio, che il suo “stile di scrittura relativamente dinamico e il relativamente alto uso di parole di contenuto sociale” delinerebbero qualcuno che era “socialmente impegnato e interessato a salire sempre più su la scala sociale”.

Fare data-mining su Shakespeare è, come avrebbe potuto dire il conte di Worcester, “quanti ne potreste incontrar nell'attraversare un torrente, fra il mugghio e l'alto strepitar dell'acque, sull'incerto sostegno d'una lancia” [N.d.T.2]. Lo studio di Boyd e Pennebaker, in altre parole, non è stato universalmente lodato. Anche se gli esperti con i quali ho parlato erano generalmente entusiasti della prova linguistica della paternità dell’opera, molti erano sprezzanti nei confronti dei tentativi di elaborare un profilo psicologico del drammaturgo. Ron Rosenbaum, autore di “The Shakespeare Wars” [N.d.T.3], ha messo in dubbio anche lo scopo dello studio. “È così selvaggiamente riduttivo cercare di ridurre la letteratura a qualche algoritmo”, mi ha detto. “Il modo per capire Shakespeare è rileggerlo continuamente”. Come prova della sua tesi, Rosenbaum ha posto come esempio “A Funeral Elegy”, una poesia inizialmente attribuita a Shakespeare, con l’aiuto di un database chiamato Shaxicon, e poi, su consiglio di un lettore umano del tutto meno algoritmico, riattribuito a John Ford, autore della commedia “Peccato che sia una sgualdrina”. Ma Gary Taylor, un curatore della raccolta Oxford Shakespeare, vede qualcosa in più del principio accademico in gioco. “Molti grandi scrittori e critici letterari hanno scelto di concentrarsi sull’inglese perché odiavano la matematica”, mi ha detto.


Note del Traduttore
N.d.T.1: Pene d’amor perdute, atto IV, scena III - Traduzione di Andrea Cozza, Oscar Classici Mondadori, 1993
N.d.T.2: Enrico IV, prima parte, atto I, scena III - Traduzione di Maria Antonietta Andreoni D’Ovidio, in: Shakespeare tutto il teatro, Newton Compton, 1990
N.d.T.3: Non è stata ancora pubblicata una traduzione italiana di “The Shakespeare Wars” di Ron Rosenbaum


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